L’ Avvocato Gianni Agnelli ha sempre avuto una visione internazionale non solo negli affari e nella sua vita (era l’unico italiano che andava in barca a vela con i Kennedy) ma anche per il suo più grande amore: la Juventus.
Da imprenditore è stato uno dei primi in Occidente a riuscire a aprire fabbriche oltre la Cortina di Ferro (in Unione Sovietica nel 1966 e in Polonia nel 1973) e questo dettaglio può far capire il potere e la visione internazionale di quest’uomo in piena Guerra Fredda.
A prescindere dai luoghi comuni diffusi come un virus dalla stampa anti-bianconera sui successi europei limitati (in realtà dal 1977 al 1985 la Juve vinse tutte le Coppe), il numero uno di FIAT e della famiglia più potente d’Italia ha portato la Juve sul tetto del Mondo, pur mantenendo un equilibrio nei bilanci.
Berlusconi ha vinto di più ma spendendo un fiume di denaro. Gianni fino al 1990 non osò mai neanche pensarci, poi il mercato e l’evoluzione del calcio, lo forzarono a compiere questo passo e iniziarono i colpi rumorosi di Roberto Baggio, Thomas Hassler e Gianluca Vialli. Nel 1994 Umberto Agnelli però ideò la Juve senza aumenti di capitale. La società con Moggi, Giraudo e Bettega doveva finanziarsi da sola. Ma non andiamo fuori tema e concentriamoci sul sogno europeo dell’ Avvocato.
In Formula 1 ha voluto sempre i numeri 1, la sua idea di grandezza nello sport
La sua idea di grandezza e le sue ambizioni si riflettevano nello sport e non solo con la Juve, pensiamo nel rally con la Lancia di Cesare Fiorio e Miki Biason (ha vinto tutto) e nella vela con Azzurra (prima imbarcazione italiana a partecipare all’America’s Cup con discreti risultati).
La sua ambizione smisurata l’ha portato a fare di tutto per riportare a Maranello il titolo Mondiale e ingaggiare – dopo la morte di Enzo Ferrari – i più grandi tecnici, ingegneri e piloti in rosso (prima John Barnard, Nigel Mansell e Alan Prost, poi Miki Schumacher, Ross Brawn e Rory Byrne, gestiti da Jean Todt (un vincente nel rally) e Luca Cordero di Montezemolo. Il povero Airton Senna era già d’accordo con la Ferrari quando era in Williams, prima della tragedia di Imola. Nel calcio però il percorso internazionale è stato frenato dal contesto pesante degli anni ’70.
Gli anni di piombo
Negli anni ’70 dovette tenere a freno la sua mentalità di uomo cosmopolita sia perché la FIAT e la sua figura erano sotto la costante pressione dei Sindacati, inoltre l’Avvocato era oggetto di continue minacce delle Brigate Rosse.
Mesi interi di scioperi, l’azienda è stata sul punto dell’orlo del baratro. Memorabili le sue battaglie e trattative fiume con Luciano Lama della CIGL (un avversario che stimava e rispettava). Figuriamoci se in un contesto del genere poteva presentarsi al tavolo delle trattative con i rappresentanti degli operai (che facevano una vita molto dura nelle sue fabbriche) con il Cristiano Ronaldo del tempo al suo fianco, come ha fatto il suo nipote Andrea Agnelli, figlio dell’amato fratello Umberto. Tempi e epoche differenti, l’Italia era sull’orlo della guerra civile.
Il paese fu scosso e ribaltato dalla rivoluzione socio-culturale del ’68 (Agnelli era in carica come presidente FIAT da quattro anni quando il Mondo si capovolse) e ne uscì nei primi anni ’80 seppur con grosse cicatrici.
C’era poi un limite oggettivo nel calcio italiano: le frontiere erano chiuse e nessuna squadra italiana poteva ingaggiare stranieri (si riaprirono solo nel 1980). Erano gli anni del dominio dell’Ajax e del Bayern Monaco oltre che dei club inglesi. Il calcio italiano era dietro.

Gianni Agnelli allo Stadio spesso era accompagnato dall’amico Henry Kissinger, uno degli uomini più influenti in politica internazionale, ex Segretario di Stato USA
Juventus story: da Belgrado a Bilbao
Nel 1977 la Juventus vinse il suo primo trofeo internazionale, dopo aver perso nel 1973 la finale di Coppa dei Campioni a Belgrado contro gli extraterrestri dell’Ajax.
La prima Juventus tutta italiana di Trapattoni sollevò al cielo di Bilbao la Coppa Uefa (al tempo la finalissima si giocava tra andata e ritorno), quel trofeo che pesava tantissimo, visto che vi partecipavano le seconde e terze dei campionati europei. Era molto difficile vincerlo anche perché contava su un turno in più rispetto alla vecchia Coppa dei Campioni e alla Coppa delle Coppe.
Era una Juventus con 11 italiani in campo e sfidò e piegò l’orgoglio basco. Quella squadra fortissima (stabilì nel 1976-1977 il record di punti nel campionato a 16 squadre, battendo di un soffio il Torino di Radice) fu la base dei successi europei degli ’80 e della Nazionale campione del Mondo. Cabrini, Scirea, Gentile, Tardelli più il rientrante Paolo Rossi nel 1982, diedero vita al ciclo europeo più vincente della Juve. Zoff perse ad Atene e si ritirò, Bettega volò in Canada, a Toronto.
Per la Coppa dei Campioni serviva qualcosa in più…
Per la Coppa dalle grandi orecchie però Agnelli e Boniperti erano alla ricerca di un fuoriclasse straniero per il salto di qualità, partendo da un’ottima base italiana.
La FIGC non ne voleva sapere di riaprire le frontiere: il Mondiale mancava dal 1938. La vergogna coreana del Mondiale del 1974 era ancora fresca. L’ultimo trofeo importante finito nella bacheca della Federazione era l’Europeo del 1968.
Il desiderio dell’Avvocato verso i grandi campioni però non si era mai sopito.
Il fratello Umberto, da presidente, era riuscito a portare in bianconero, il più grande fuoriclasse della storia del club fino a quel momento: Omar Sivori, insieme al gigante Buono John Charles e Giampiero Boniperti. Era la Juve più spettacolare di sempre.
Quando l’Avvocato sognava Maradona
Gianni sognava un altro sudamericano. Alla vigilia dei Mondiali del 1978 l’ ambizione dell’ Avvocato volse verso l’Argentina. E’ lo stesso Agnelli che ne parlò anni dopo sulla RAI:
“Ne dico una sua Boniperti, campionati del Mondo in Argentina. Telefono a Boniperti e dico: mi hanno segnalato un giovane dalle doti eccezionali, ti prego di farlo guardare. Lui mi risponde dicendo: avvocato lei ne ha sempre una nuova. Io insisto: si chiama Maradona. Lui pensa che sia una bestemmia e mi dice: se fosse qualcuno lo saprei“.
Boniperti diede una versione differente, in ogni caso la segnalazione arrivò. Con le frontiere chiuse era però normale che il presidente bianconero monitorasse con maggiore attenzione il mercato italiano.
Iniziò a seguire Maradona che però non fu convocato da Menotti per il Mondiale di casa (ma vinse nel ’79 a Tokio da protagonista la competizione iridata juniores).

Il viaggio di Boniperti in Argentina
Le relazioni su Maradona furono entusiasmanti, si provò a imbastire una trattativa con l’Argentinos Juniors. Al tempo c’erano un ostacolo ulteriore (oltre ai problemi regolamentari per il tesseramento in Italia): l’Argentina era sotto la dittatura sanguinosa dei Generali che volevano tenere Diego in patria fino al Mundial ’82 in Spagna (ed andò proprio così).
Boniperti volò in Sud America ma senza successo: “Grondona (il presidente dell’Afa) mi odiava a bloccò il trasferimento” affermò Giampiero.
Qualche malizioso insistette sul fatto che il Presidente juventino non fosse così convinto dell’operazione e la mancata convocazione del giovane fenomeno argentino ai Mondiali (che avvenne per ragioni soprattutto politiche) ne raffreddò ancor di più gli ardori.
Ricordiamo che sotto la gestione Boniperti, la Juventus ha sempre privilegiato la disciplina. Provò a costringere anche Platini nel 1982 a seguire certi rituali. Quando firmarono in sede, il Presidente disse a Michel: “ti porto a tagliarti i capelli” e il francese rispose: “ha paura che mi cadano?”.
La disciplina era uno dei punti di forza di una squadra che spendeva poco ma che aveva un gruppo solido e coeso che dava tutto in campo. Ed è probabile che Maradona non rientrasse nei piani di Boniperti che provò (senza convinzione) ad accontentare la voracità dell’ Avvocato per la fantasia e la genialità del numero 10 argentino.
Il veto dei sindacati e dei Generali
Negli anni successivi la Juve non insistette, si narra anche di un veto da parte dei sindacalisti a Agnelli nel 1979. Giusto farsene una ragione. La Juve rende tutti irrazionali, ma gli affari e il dovere vengono prima, anche per un uomo potente (ma molto disciplinato) come l’Avvocato.
Non c’erano le condizioni ambientali sia in Italia che dall’altra parte dell’ Oceano per ingaggiare Diego, con le due Federazioni di traverso. Dopo il Mondiale del 1982 i Generali consentirono a Maradona di giocare all’estero nel Barcellona. Non prima. Lo sport era alla base delle menzogne della dittatura.
Il primo straniero: Liam Brady
Visto l’impossibilità oggettiva di arrivare a Dieguito, nel 1980 Agnelli e Boniperti, con la riapertura delle frontiere, puntarono sull’elegante regista dell’Arsenal, Liam Brady, un signore e dai costi contenuti.
Il calcio inglese era un punto di riferimento in Europa, i club di Sua Maestà vincevano Coppe con una certa facilità. La Juve iniziò a colmare il gap con l’operazione Brady, centrocampista dai piedi buoni, dall’ottima visione di gioco ma forse un po’ lento.
Era l’ideale per la Juve che aveva dovuto rinunciare a Benetti (per comprovate ragioni di età) ma poteva sempre contare sui polmoni di Capitan Giuseppe Furino e Marco Tardelli. Serviva un architetto con il compasso per disegnare quella Juve. Con lui, i bianconeri vinsero due scudetti consecutivi e arrivarono alla seconda stella.
Nel frattempo l’Inter aveva opzionato un giovane fuoriclasse francese, Michel Platini, su segnalazione di Beppe Mazzola. Il resto è storia. Seguiteci!
La visione e grandezza europea di Gianni Agnelli e della sua Juventus – prima parte – continua –

si bella trasmissione
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